I messaggi nascosti
Nello scritto che segue mi propongo di suscitare un po’ di curiosità presso chi sia interessato alle tecniche di comunicazione orientate a convincere, piuttosto che semplicemente ad informare. Ritengo che questo tema sia della massima importanza nella nostra epoca e nel nostro emisfero, in cui la libertà sembra un valore acquisito definitivamente. Il problema è che la libertà “formale”, quella garantita dalle costituzioni occidentali, si discosta dalla libertà effettiva, consistente nel numero di scelte che abbiamo a disposizione, senza che gli inevitabili, e ineliminabili, condizionamenti socio-culturali a cui tutti noi siamo soggetti, ci impediscano perfino di comprendere che siamo condizionati. Male che va, potremmo conservare la libertà di decidere da chi… esserlo.
Quindi, nel ridotto spazio che ho a disposizione, vorrei parlarvi di come certi messaggi, soprattutto di natura pubblicitaria e politica (contesti diversi e marketing comune) influenzano le nostre decisioni, cambiano i nostri bisogni e i nostri desideri, e ci rendono come “Qualcuno” vuole che siamo. Si capisce bene che l’intenzione di chi scrive è attivare o risvegliare la coscienza del lettore perché si possa difendere dall’intrusione.
Presupposti teorici
In particolare, dirò che il nostro tema, nel mare vasto e profondo della linguistica, si colloca nella Pragmatica. Questa studia l’uso del linguaggio in relazione alla comunicazione, dato che il linguaggio è una capacità, esclusivamente umana, non necessariamente esibita nella sola funzione comunicativa; il linguaggio si può (anzi, non si può fare a meno di) usare per pensare o per scrivere. Osserviamo che, nello studio del linguaggio, l’identità del parlante, il contesto in cui questi si esprime, e quant’altro di situazionale e soggettivo si voglia considerare, non vengono presi in considerazione; mentre la pragmatica si occupa proprio di questo: comprendere come la lingua funziona nei processi comunicativi tenendo conto della natura di chi parla e di chi ascolta. Per questo, la pragmatica prende anche in considerazione la comunicazione non verbale (comportamento, atteggiamento, espressioni del viso, postura) e quella paraverbale (tono della voce, aspetti fonetici dei messaggi), modalità portatrici di significati dal grande valore informativo. Nell’ambito della pragmatica siamo interessati, per i nostri scopi, al Principio di Cooperazione: “Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto dall’intento comune, nel momento in cui avviene”[1]. Il Principio, è composto da quattro “massime”:
- Quantità: dai un contributo tanto informativo quanto richiesto (non di più!)
- Qualità: non dire ciò che ritieni falso o ciò per cui non hai prove adeguate
- Relazione: sii pertinente
- Modo: sii perspicuo (evita oscurità e ambiguità)
Si comprende che le “massime” fanno parte di un più generale processo di socializzazione[2] delle persone, impegnate a collaborare allo scopo di raggiungere i propri obiettivi nel rispetto di quelli altrui. Quindi, normalmente, ciascuno si aspetta che gli altri si comportino (e comunichino) in modo adeguato a non creare ostacoli. Per questo, al Principio di Cooperazione fa riscontro il Principio di Carità o di Benevolenza, secondo cui chi ascolta deve impegnarsi a comprendere ciò che l’altro dice, secondo il buon senso, gli usi correnti e le regole non scritte che entrambi conoscono. Se interpretassimo un messaggio in modo rigorosamente letterale, perderebbero senso le metafore, i sottintesi, i significati affidati al non verbale, come nell’esempio che segue
1. “Sai che ore sono?”
“Certo che lo so!”.
Una prima conclusione di quanto si è detto è che nella produzione/comprensione dei messaggi c’è un aspetto largamente dipendente dalla fiducia che reciprocamente, e automaticamente, ciascuno nutre nell’interlocutore. Tale valore significante, nel Principio di Cooperazione, è denominato implicatura: una deduzione che un ascoltatore opera riguardo alle parole dell’interlocutore, tenendo in massimo conto del contesto in cui queste vengono pronunciate, oltreché delle convenzioni linguistiche. Ad es.,
2. “è povero ma onesto”
affida alla particella avversativa “ma”, in quanto convenzione linguistica, l’implicatura che i poveri difficilmente sono onesti; ancora, un ragazzo rivolgendosi al fratello
3. “Che c’è questa sera per cena?
“la mamma ha cucinato l’arrosto”.
In questo caso, l’implicatura riguarda il contesto: “la mamma” è evidentemente la madre di entrambi; e nessuno chiederebbe “la mamma di chi?”.
Insomma, cooperare vuol dire far di tutto per comprendere quel che intendono dirci, più che quel che ci dicono, altrimenti una risposta come quella dell’esempio 1) verrebbe giudicata corretta più che surreale. Il fatto che le massime siano espresse sotto forma di prescrizione non significa che queste rappresentino regole da applicare (tanto più che la maggior parte delle persone spesso le viola), piuttosto che, chi si applica a comprendere il significato di un discorso, presuppone che il parlante le stia rispettando, altrimenti il suo sforzo cooperativo andrebbe perduto.
In altri termini, pur essendo tutti noi consapevoli che la menzogna, la prolissità, le informazioni false, ecc. sono largamente praticate, nel momento in cui ci sforziamo di comprendere il discorso di un nostro interlocutore, siamo costretti a dare per scontato che egli osservi le massime per metterci in condizioni di comprenderlo, anche se, di principio, non nutrissimo alcuna fiducia nella buona fede del prossimo.
Quindi, applicare il principio di cooperazione è un atto razionale prima ancora che etico.
leggi Messaggi dietro ai messaggi (parte 2)
AUTORE: LUCIANO SPARATORE
©Riproduzione riservata
[1] P. Grice, Logica e Conversazione, Il Mulino – Bologna, 1993
[2] Si definisce così il progressivo adattamento, da parte di un soggetto, alla cultura e agli usi del gruppo di appartenenza allo scopo di ottenere il riconoscimento e l’integrazione